De Gregori
deruba Dylan

Un nuovo disco e un nuovo tour

Francesco De Gregori dedica un album di undici canzoni al suo maestro Bob Dylan. Un omaggio sentito e riuscito. Il più raffinato dei nostri cantautori traduce da par suo i testi del vecchio folk singer, scegliendo alcuni fra i brani meno conosciuti. Il risultato è sorprendentemente fedele all’originale, con testi ispiratissimi e ballate ora incalzanti ora dolcissime. Nel nuovo tour di concerti per teatri e locali, il nuovo disco viene eseguito interamente nella prima parte. Spazio poi ai pezzi più noti di un repertorio straordinario.

MILANO – Per essere un furto è proprio un furto. Un furto in piena regola. Dichiarato, tra l’altro, proprio nel titolo dell’album:  Amore e furto. Furto per amore, appunto. Furto con destrezza. Riuscito bene peraltro. Si intitola così, «De Gregori canta Dylan, Amore e Furto», l’ultimo disco (preferisco dire disco che cd) di Francesco De Gregori, uno dei più raffinati (e longevi) cantautori italiani.

Sono undici pezzi, tutti di Bob Dylan, che De Gregori, che lo ha sempre amato e che lo ha sempre detto, e a cui si ispira e si è ispirato, ha scelto e tradotto personalmente. Un omaggio, vero e sentito, al folk singer più famoso al mondo, al padre di tutti i cantautori. Un disco riuscito, al quale si accompagna un tour dallo stesso titolo in teatri e locali d’Italia, con tutto il disco nella prima parte del concerto e alcuni dei suoi pezzi più celebri nella seconda.

Per questo omaggio al suo maestro, De Gregori non ha scelto i pezzi più conosciuti e più facili di Dylan. Non c’è  Like a Rolling Stone, per dirne una. Non c’è  Blowin’ in the wind, non c’è  The Times they are a-changin, non c’è  Hurricane, e non c’è nemmeno quel  Knockin’ on heaven’s door che rimane il mio pezzo preferito. Ma ci sono titoli sulfuerei, che magari diranno poco al grande pubblico, come  Subterranean homesick blues. De Gregori ha scelto, forse anche con una punta di snobismo, tutti pezzi meno noti.

Pezzi vecchiotti, anche. Non a caso De Gregori non scrive l’anno in cui sono stati composti, sulla copertina del disco. Si scoprirebbe infatti, solo per dirne un’altra, che pezzi come l’appena citato  Subterranean homesick blues, o come  Desolation Row, sono nientemeno che del lontano 1965. E ci vuole un bel po’ di coraggio a riproporre oggi pezzi di cinquantuno anni fa.

Detto questo, li traduce in un italiano splendido. Limpido e pulito. E sostanzialmente fedele all’originale. Così anche il canto e la costruzione armonica del pezzo. De Gregori deruba Dylan ma non lo tradisce. Lo rispetta più di quanto non si rispetti lo stesso Dylan quando in concerto si diverte a storpiare, spesso in modo imbarazzante, le sue canzoni, fino a renderle quasi irriconoscibili.

L’album si apre con  Un angioletto come te ( Sweetheart like you, del 1983), uno dei brani più belli del disco, deliziosamente morbido, orecchiabile, subito vincente. Vale l’incipit: «L’atmosfera è buona, lui non c’è, è andato all’estero e non tornerà». Il ritornello poi ti resta per giorni nella testa: «Ma che ci fa in un posto simile un angioletto come te?».

 Servire qualcuno ( Gotta serve somebody, ancora più vecchia, del 1979), si snoda su binari musicalmente più ripetitivi. La morale è: «Forse sarà il diavolo, forse sarà Dio, ma devi sempre servire qualcuno».  Non dirle che non è così ( If you see her, say hello, torniamo sempre più indietro, siamo al 1975, più di quarant’anni fa), vola via tenera, dolce e bellissima.

 Via della povertà ( Desolation Row del 1965), è uno dei brani più noti. Nel 1974 fu cantata anche da Fabrizio De Andrè, nell’album  Canzoni, che l’aveva tradotta proprio insieme a De Gregori. È una ballata lunghissima, di stampo classico, un po’ monocorde. L’attacco è da urlo: «Il bagno turco in fondo al vicolo è affollatissimo di marinai, prova a chiedere a uno che ore sono e ti risponderà non l’ho saputo mai».  Come il giorno ( I shall be released, del 1968), pezzo affascinante, è uno dei migliori del disco. Parla di uno che sta in galera. Comincia così: «Del mondo qua di fuori non c’è traccia, e dicono che è meglio che è così».

 Mondo politico ( Political world, del 1989), è un pezzo asciutto, polemico, nervoso. Tutto il contrario di  Non è buio ancora ( Not dark yet, del 1997), ballata dolcissima dal sapore western. Poesia pura: «E non è buio ancora ma lo sarà tra un po’». Contiene frasi-chiave come: «Sono nato senza chiederlo, senza volerlo morirò».  Acido seminterrato ( Subterranean homesick blues, del 1965), è un pezzo di blues-rock urbano, sporco e cattivo.

Molto ritmati sono anche  Una serie di sogni ( Series of dreams, del 1991), e  Tweedle Dum & Twedle Dee (stesso titolo dell’originale, 2001), un tiratissimo anche se non ispiratissimo swing, la storia di due che «sgobbano al sole di mezzodì, tirano sassi a un albero storto, spargono polvere d’ossa di morto». Chiude  Dignità ( Dignity, del 1994), un altro pezzo che puzza di blues in cerca del «nascondiglio della verità».

Un album, nell’insieme, riuscito e godibilissimo. Difficile, d’altra parte, che dall’incontro, sia pure a distanza, tra due mostri sacri come Robert Zimmermann e Francesco De Gregori, escano note sbagliate.

LA PAGELLA
De Gregori canta Dylan: voto 8,5

Francesco De Gregori (fonte: www.lakinzica.it)

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