Coppi, «Non ho
tradito nessuno»

Il racconto del campionissimo

La vita di Fausto Coppi, uno dei campioni del ciclismo più amati, e non solo in Italia, raccontata da lui stesso attraverso le parole e gli scritti ritrovati, alcuni in circostanze fortunose, e messi assieme per la prima volta. Ne è uscito un avvincente libro autobiografico, «Fausto Coppi: «Non ho tradito nessuno», autobiografia del campionissimo attraverso i suoi scritti, edito da Neri Pozza. A curare il volume è il giornalista Gabriele Moroni, inviato di punta, firma storica del quotidiano «Il Giorno», che si è occupato dei più importanti fatti di cronaca degli ultimi decenni. La sua è una narrazione appassionata, ricca di aneddoti, di molti spunti inediti, e anche di qualche sorpresa. Da leggere tutto d’un fiato.

Fausto Coppi è qui, a raccontarsi in questi ricordi che ho cercato di allineare con il maggior ordine possibile, seguendo lo snodarsi di una vita breve e intensissima.
Il corridore, certo, il campione, il più grande, il più amato. Ogni volta che lo penso mi viene da accostarlo a certi personaggi dei film di Gary Cooper, non per nulla uno dei suoi attori preferiti. Uomini buoni fino alla mitezza. L’azione pare sorprenderli, sopravanzarli, sommergerli.

Ma nel momento della sfida finale, quando non rimane spazio per l’esitazione, la ritrosia, la paura, subiscono una radicale metamorfosi genetica che li fa essere decisi, duri, determinati fino alla spietatezza. Come il Coppi degli anni di maggior gloria. Le sue vittorie sono raccontate senza iattanza, senza ombra di tracotanza. Eppure assumono ogni volta qualcosa di epico.

Perché non sono conquistate soltanto contro gli avversari (e che avversari, il Gotha del ciclismo di ogni epoca) ma anche contro la fatica, la malasorte, persino la natura avversa. Scrive Coppi ricordando quel giro di Toscana, che elegge a sua vittoria più significativa, più di quelle al Giro d’Italia e nel Tour, più del mondiale di Lugano: “Non ho mai sofferto tanto in vita mia”.

“Ho pedalato sul muro di Grammont in Belgio, sull’Iseran nel Tour, ricordo lo Stelvio nel Giro d’Italia, ma ho sempre nella mente quella salita del Saltino, quei quindici chilometri spaventosi, quel fango dal quale dovevo liberare la bicicletta centimetro per centimetro. Solo affrontai quella salita e solo la finii. La vedo ancora come un incubo, qualche volta l’ho sognata: senza uno spettatore, con l’acqua che scrosciava ai bordi della strada, la pioggia battente che il vento mi gettava sulla faccia”.

Sofferenza. Pioggia e vento. E solitudine. La solitudine che non è semplicemente quella del battistrada, dell’atleta più forte. Racchiude anche qualcosa di biografico, di esistenziale. La solitudine come dimensione di vita.

Le sconfitte sono assolute. Sono cadute verticali, annichilimento. E non c’è possibilità di risalita dallo sprofondo, di discesa dal calvario. Ecco come su “Il Campione” descrive l’epilogo della disastrosa tappa di Montpellier, nel Tour del 1951: “Vinto dallo sforzo, bruciato dal sole, crollai quasi di colpo. Non avevo mangiato (volevo farlo ad inseguimento concluso) e quel poco che avevo inghiottito m’era rimasto in fondo alla gola”.

“Bevvi allora, bevvi troppo e lo stomaco mi si rivoltò. In pochi chilometri mi vidi ridotto ad un cencio, livido, spremuto. Cosa soffersi quel giorno! Tanto ero stravolto che non riuscivo a pedalare neppure in pianura. La gente lungo la strada mi guardava con occhi pietosi, in silenzio. Il calvario, sotto un sole implacabile, durò per oltre cento chilometri fino a Montpellier dove giunsi fuori tempo massimo. La sera discussero se riammettermi o no in corsa. Mi riammisero ma la cosa, ve lo confesso, mi lasciò indifferente”.

Gabriele Moroni, «Fausto Coppi: «Non ho tradito nessuno», autobiografia del campionissimo attraverso i suoi scritti (Neri Pozza editore).

Fausto Coppi (fonte: federciclismo.it)., La copertina del…

Coppi, "Non ho tradito nessuno"