Lo spartano sibarita
La necessaria biografia di Lord Byron a cura di Vincenzo Patanè
Nel vasto e variegato panorama delle biografie letterarie dedicate alle figure chiave del Romanticismo europeo, L’estate di un ghiro. Il mito di Lord Byron di Vincenzo Patanè si impone come opera di straordinaria erudizione e peculiare profondità interpretativa. L’opera è ancor più significativa in quanto costituisce la prima e unica biografia scritta in italiano su Byron, un fatto di per sé sorprendente se si considera il forte legame che il poeta nutriva verso l’Italia. Sotto la penna di Patanè, Byron non è semplicemente il soggetto di uno studio accademico, ma diviene protagonista di un affresco narrativo dando vita a un ritratto vibrante e stratificato, tanto umano quanto mitico.
VENEZIA — La fortuna critica di Byron, lungi dall’essere semplicemente il frutto della sua vasta produzione letteraria, trova una delle sue radici più profonde nella costruzione consapevole del proprio mito personale. È proprio questa dimensione, sospesa tra l’autocompiacimento narcisistico e l’impegno politico, che Patanè riesce a sondare con abilità, restituendo al lettore una figura che sfugge a ogni facile categorizzazione.
Se da un lato, infatti, Byron incarna l’archetipo del libertino romantico, dall’altro emerge come portatore di istanze idealistiche che lo condussero a impegnarsi in battaglie di grande rilevanza, come quella per l’indipendenza della Grecia dall’Impero Ottomano, ma che si manifestarono già nei discorsi pronunciati alla Camera dei Lord, dove prese le difese degli operai durante le sommosse luddiste. È in questo dualismo, tra il poeta e l’uomo d’azione, che risiede la chiave di lettura della complessa personalità byroniana.
Uno degli elementi di maggior pregio che emerge dall’opera è l’originalità della struttura biografica, che evita consapevolmente la tradizionale linearità cronologica per abbracciare una narrazione tematica. Questa scelta, apparentemente destabilizzante per chi si attende una biografia ordinaria, risulta funzionale a far emergere la molteplicità di sfaccettature della vita e della personalità di Byron. La cura editoriale è particolarmente notevole: Patanè arricchisce il volume con un corposo apparato di note e un denso lavoro di documentazione che attinge a diari, lettere e testimonianze poco conosciute. Questi elementi non solo conferiscono al volume un valore aggiunto, ma fungono anche da sostegno alle ipotesi avanzate dall’autore nel corso del saggio, rendendo il testo un’opera scientificamente solida.
Il titolo stesso dell’opera, L’estate di un ghiro, rappresenta una metafora potente che descrive la breve e intensa parabola esistenziale di Byron. Il ghiro, con il suo limitato periodo di attività prima del letargo, simboleggia l’urgenza di vivere che ha caratterizzato l’intera esistenza del poeta. Byron, consapevole della caducità della vita, si è gettato con una febbrile intensità in ogni esperienza, dalla ricerca del piacere al coinvolgimento nelle battaglie politiche, dall’esplorazione dei paesaggi europei alla continua creazione poetica. Patanè, con una scrittura densa di richiami simbolici e riferimenti letterari, riesce a trasmettere questa tensione in maniera magistrale, offrendo al lettore non solo una biografia, ma una riflessione sulla fugacità dell’esistenza umana.
Una personalità oscillante verso gli estremi, come chiarisce Patanè definendolo in un calzante ossimoro lo spartano sibarita. Parsimonioso in alcuni tratti della sua vita, quanto dissipatore in altri, ma prodigo sempre e soprattutto verso persone più sfortunate di lui, ma senza un interesse secondario, come quando a Venezia aiutò un tipografo che vide la sua casa e i suoi beni distrutti da un incendio devolvendogli 50 luigi d’oro, o nel suo ultimo tratto di vita quando destinò alla causa greca importantissime somme. Rilevante il fatto che nonostante l’enorme popolarità, acquisita fin in giovane età a circa ventidue anni, con la pubblicazione del poema Childe Harold’s Pilgrimage, non accettò mai di essere pagato dal suo editore, nonostante in molti momenti della sua esistenza questo lo avrebbe sollevato da problemi di eccessivo indebitamento.
Considerato dai suoi coevi come un miscredente, non foss’altro per la frequentazione assidua con Shelley, il quale venne espulso in giovane età da Oxford per aver dato alle stampe un opuscolo intitolato La necessità dell’ateismo, quanto in realtà estremamente sensibile verso la riflessione circa le massime domande esistenziali, in una posizione di continua interrogazione e di evidente scetticismo verso le posizioni dogmatiche che non scaturì mai in una adesione a qualche religione precostituita.
La notorietà di Byron è sicuramente legata alle sue gesta di seduttore, sia di donne che di uomini. Questo ultimo aspetto fu a lungo sottaciuto dalla critica, anche perché Byron lo praticava con molta discrezione. Le prove che abbiamo oggi provengono dall’analisi dell’epistolario contenuto nell’archivio del suo editore, Murray. La cautela adottata da Byron era necessaria poiché l’omosessualità, in Inghilterra, era considerata un grave crimine punibile con la pena di morte, tale visione legislativa, seppur mitigata nella pena, rimase in vigore in Inghilterra fino agli anni ‘60 del secolo scorso. Basti pensare alla tragica vicenda di Alan Turing, il matematico e filosofo britannico che durante la seconda guerra mondiale contribuì alla decifrazione del codice nazista Enigma, e che nel 1952 venne costretto alla castrazione chimica.
Uno degli aspetti più interessanti dell’opera è l’analisi del rapporto tra Byron e l’Italia, un legame tanto intenso quanto, alla luce dei fatti, sorprendentemente ingrato. Nonostante l’amore del poeta per il nostro paese e la sua profonda influenza sulla cultura italiana, è sorprendente scoprire quanto poche siano state le traduzioni italiane delle sue opere. Patanè sottolinea come l’Italia, sebbene patria di ispirazione per Byron e teatro di numerose esperienze significative della sua vita, non gli abbia mai restituito adeguato riconoscimento, soprattutto in termini editoriali. Le traduzioni complete delle sue opere sono rare, e molte delle sue opere più moderne, come il Don Juan, rimangono per lo più inaccessibili al grande pubblico italiano.
L’omaggio di Byron alla tradizione poetica italiana, tuttavia, è evidente anche a livello stilistico: il poeta, in diverse sue opere, adottò la forma dell’ottava rima, un metro di otto endecasillabi rimati che ebbe il suo massimo splendore durante il Rinascimento italiano. L’adozione di questo modello, soprattutto nel Don Juan, testimonia la sua ammirazione per la tradizione letteraria italiana e rappresenta un tributo a quella cultura che tanto lo influenzò. L’uso dell’ottava rima conferisce alle opere di Byron una musicalità e un ritmo caratteristici, che purtroppo, per via della scarsità di traduzioni moderne, rimangono in gran parte sconosciuti al lettore italiano. Questo risulta ancora più significativo se si pensa che l’Italia ha rappresentato non solo uno scenario fisico, ma un luogo simbolico in cui Byron poté esprimere liberamente la sua passione per la libertà, la bellezza e la ribellione verso le convenzioni.
Se è vero che la produzione poetica di Byron è caratterizzata da una straordinaria varietà di registri, Patanè riesce a mettere in luce, con grande acutezza, l’importanza del Don Juan, il poema eroicomico che rappresenta forse l’espressione più alta della sua produzione. In quest’opera, Byron mescola abilmente tragedia e commedia, pathos e ironia, creando una narrazione polifonica in cui le diverse tonalità espressive si fondono in un insieme coerente ma estremamente complesso. Patanè sottolinea come il Don Juan, sebbene spesso trascurato rispetto alle liriche più celebri del poeta, sia in realtà un’opera di straordinaria modernità, capace di anticipare tematiche e modalità narrative che ritroveremo nei grandi autori del Novecento. Il continuo oscillare tra il sublime e il grottesco, tra l’eroico e il ridicolo, testimonia non solo la maestria stilistica di Byron, ma anche la sua disincantata visione della realtà.