Dal diario di papà Caspar
Venezia nel Settecento nel diario del padre di Wolfgang Goethe
Una preziosa testimonianza di prima mano dai ricordi, ignorati nei secoli (e vanagloriosamente derisi da pomposi cattedratici italici del Novecento), del papà (meno illustre) del grande Johann Wolfgang von Goethe, detto anche «l’ultimo uomo universale a camminare sulla terra».
VENEZIA — Il giovane Johann Caspar, figlio di un oste rinomato e benestante, giunse a Venezia a metà del Settecento a trent’anni, secondo la moda del tempo che imponeva a giovani destinati a una bella carriera il Grand Tour d’Europa (ma soprattutto d’Italia). Dal suo racconto aneddoti e impressioni preziosissime per capire la vita quotidiana della Serenissima del tempo, fin dal suo ingresso nella penisola italica: «Preso fui, entrando nello stato veneziano [nella città di Primolano a confine tra Veneto e Austria], per uno che portasse seco qualche malattia contagiosa. […] Alcuni soldati mi condussero ad un casino, o per dir meglio nella mia prigione circondata d’una [barriera] palificata, con alla porta un doppio rastello. […] Poco dopo ci fu comunicato che la contumacia aveva cominciato a calare, e che noi altri col fine della quarta settimana saremmo [stati] liberi.
È con queste parole del suo diario in italiano, fittiziamente scritto in forma epistolare nella moda dell’epoca, che fa la sua entrata nel 1740 nella Repubblica di Venezia il padre del più famoso Wolfgang Goethe, Johann Caspar Goethe. Un giovane celibe di appena trent’anni, figlio di un sarto che diventò poi un importante oste, diremmo oggi di un locale stellato, la cui disponibilità finanziaria permise a Caspar di intraprendere studi giuridici e di viaggiare per l’Italia, facendo il classico Grand Tour, prima di metter su famiglia.
Nella sua introduzione alle lettere, Caspar fa un riferimento paradigmatico alla innata capacità dei nostri connazionali dell’epoca di raggirare i viaggiatori: «Ognuno sa che quei della plebe inclinano molto alla vita oziosa, il che fa loro inventar diversi mezzi per acchiappar i viandanti troppo creduli e d’una dovuta pratica sprovvisti» riflessione che deriva da una esperienza in corpore vili. Infatti Caspar a Primolano, città di frontiera tra l’Austria e La Repubblica, si sottopone inaspettatamente ad un misura di quarantena, per circa quattro settimane, con inoltre il fastidio di dover pagarsi di tasca propria il vitto e l’alloggio al prezzo di uno zecchino al giorno. Facendo poi l’amara scoperta di esser stato gabbato sulla durata della quarantena, che fu arbitrariamente allungata di otto giorni, ma il fatto più tristemente comico fu che nei giorni di carnevale vide «il direttore col mio guardiano in Venezia durante il Carnevale far ancora pompa de’ miei bezzi».
A Venezia Caspar ha modo di immergersi completamente nell’atmosfera del carnevale settecentesco, con le sue usanze ed i suoi doveri del tutto unici. Si accorge che girare in borghese lo mette al centro di innumerevoli angherie scherzose da parte della gente mascherata, decide così di mascherarsi anche lui, comprandosi un tabarro ed una maschera, acquisendo in questo modo l’anonimato: «Cosi vestito alla sciocca maniera veneziana, ritornai da persona privilegiata e con tanta fierezza entrai da per tutto, che parevo nato fra le maschere». Vede tutta la città mascherarsi, in una orgiastica fantasmagoria di trovate e di somiglianze: «non si contentano di contraffare colla maschera ogni sorta di personaggi, come pastori e pastorelle, giardinieri, bifolchi, Americani, Africani, nobili di Venezia ed altri che l’ingegno umano può immaginarsi» ma vede anche molti travestirsi da feriti, stroppiati, pezzenti inviluppati in cenci sozzi spruzzati di sangue, e comparir cosi in quei luoghi più frequentati per esser ammirati ovvero abborriti da quei che avanti di loro passano. Caspar non è un ingenuo né una persona fintamente moralista, riesce a comprendere lo scopo psicologico catartico politico sociale del carnevale, in una Repubblica in cui il governo distrugge sul nascere l’ascesa di qualunque tipo fazione o partito, il mescolare la gente, il renderla uguale per un periodo dell’anno, nonostante le naturali differenze di censo, crea le condizioni per una conoscenza reciproca intima dei cittadini in un afflato d’unità scherzosa: «Se però convien congetturare, mi sembra che la Repubblica fermi a posta gli occhi su queste pazzie per aver poi in altre occorrenze sudditi tanto più obbedienti».
Ha modo di frequentare i teatri, a Venezia in quel periodo storico innumerevoli, in special modo scrive nel suo diario dello spettacolo l’Adriano in Siria del Pergolesi a cui assistette al teatro di san Giovanni Crisostomo, lo stesso teatro che frequenterà suo figlio Wolfgang quarant’anni dopo e con altra rappresentazione ne uscirà tremendamente annoiato. È meravigliato del fatto che pochi si mettano in platea per paura di venir sommersi dall’immondizia e dagli sputi che vengono lanciati dalle logge, sporcizia che ritrova anche in giro per la città con spettacoli penosi nei pressi del palazzo Ducale, tanto da fargli scrivere che «parte dei cui abitatori [di Venezia….] può vivere nella sporcheria siccome la salamandra nel fuoco». Trova spettacolare la macchina scenica nel teatro che permette a quattordici ballerine di calare dall’alto sul palcoscenico alla fine di ogni atto. Rimane letteralmente sconvolto e spaventato nel vedere le corride che vengono svolte sul finire del carnevale in piazza san Marco, dove i tori vengono lungamente tormentati da uomini e cani appositamente addestrati e imbizzarriti da fuochi d’artificio, per poi venire freddamente decollati con grandissimo giubilo della folla, stupendosi della maestria di un macellaio: «ed è veramente da maravigliarsi della forza e destrezza del primo [beccaio] che in un colpo la recise; ma gli altri due non furono cosi bravi».
Viene introdotto alla frequentazione di un Ridotto, un circolo ricreativo privato per nobili allestito in un appartamento formato da innumerevoli piccole stanze sontuosamente decorate. In questo Ridotto la ragione sociale nel periodo di carnevale ruota attorno al gioco d’azzardo. In questo Ridotto ha l’opportunità di seguire il trionfo e la successiva rovina di un giocatore, biasimandolo scriverà: «In verità, se quell’asino fosse stato contento della sua prima carica e l’avesse salvata, avrebbe potuto senza dubbio vivere da uomo fortunato».
Passeggiando per la città è ammirato per la quantità di editori che espongono i libri da loro editati, e nota che questi vengono completati della brossura in bottega così da apparire più delle legatorie che delle librerie, nota che sono ben esposti e che è facile entrando in una libreria capire che libri si vendono. «Gli studiosi e i nobili frequentano queste librerie anche solo per consultare i libri, in una magnifica cornice di condivisione del sapere: frequentano le botteghe più per studiare e servirsi di quei libri che per comprare. Insomma paiono tante librarie pubbliche, senza che i padroni se ne lamentino».
Ma sottolinea l’apertura mentale della città anche nella tolleranza verso i fedeli di altre fedi, come i luterani che dimorano nel fontego dei Tedeschi. Qui evidenzia come per evitare dissidi religiosi la Repubblica li abbia lasciati liberi di celebrare il culto luterano, cosa inaudita all’epoca in altre nazioni cattoliche, nel contempo consigliando ai ministri di culto luterani di girare però per la città in abiti secolari, ed evitando, per mantenere l’ordine e la riservatezza, che «entrassero nel fontego persone non appartenenti a quella nazione».
Il comportamento, poi, dei nobili veneziani è secondo lui ammirabile. Questi, infatti, annota Caspar: «sono cosi familiari con i più infimi bottegari che, se non fossero tali, tali si farebbero col lor conversare con tutti dimesticamente. […] I nobili, anche attempati e fuor del Carnevale, si lasciano abboccare nelle botteghe de’ libri, di caffè e sulle piazze, senza gran cerimonie come se fossero affratellati con ciascheduno». Tanta ammirazione lo porta pure a rimproverare alla nobiltà tedesca di non avere lo stesso contegno: «Vergogna ai nostri tedeschi. Volesse il cielo che i nostri principi mandassero qui alcuni de’ loro nobili per imparare [un] simile contegno, come sogliono mandarvi a loro spese ragazze e ragazzi per imparar la musica».
Si trattiene a Venezia per qualche mese, poi parte per Milano, Torino e Genova portando con se un souvenir di una gondoletta, da perfetto turista, con cui più tardi giocherà il figlioletto Wolfgang.
L’opera di Caspar non era destinata alla pubblicazione e doveva, secondo l’intenzioni dell’autore, rimanere ad uso familiare. Ma ovviamente l’incredibile fama del figlio tolse ogni pur minima segretezza a questi scritti, ora conservati alla Goethe-Bibliothek di Weimar.
Il testo fu rielaborato più volte per vari decenni da Caspar, con l’aiuto dell’ex monaco pugliese Domenico Giovinazzi, anche se rimane il dubbio, visti i numerosi errori grammaticali, di quanto in realtà interessasse al monaco aiutare Caspar; pare che frequentasse la sua casa più che altro per accompagnare al pianoforte la moglie, con cui suonavano canzoni italiane.
Di quest’opera abbiamo una edizione completa in due volumi del 1932 a cura del germanista Arturo Farinelli per la Reale Accademia d’Italia. Opera aspramente criticata da Benedetto Croce che la definirà: «uno scartafaccio di insipide notizie», sia per l’avversione verso il curatore che non allegherà corpose note esplicative al testo di Caspar, sia verso il testo di Caspar che riconoscerà come pieno di errori grammaticali, di scopiazzature di alcune descrizioni di monumenti da altri viaggiatori, ma ai nostri occhi meno critici e meno eruditi appare invece come un denso di commoventi descrizioni e analisi.